The Legend of Ochi

Regia: Isaiah Saxon
Interpreti: Helena Zengel, Willem Dafoe, Emily Watson, Finn Wolfhard, Razvan Stoica, Carol Bors, David Andrei Baltatu, Andrei AntoniuAnghel
Sceneggiatura: Isaiah Saxon
Fotografia: Evan Prosofsky
Montaggio: Paul Rogers
Paese/Anno: USA, 2025
Distribuzione: I Wonder Pictures
Durata: 96’
Genere: Fantastico, Avventura

SINOSSI

The Legend of Ochi segue Yuri (Helena Zengel), un’adolescente proveniente da una remota isola sul Mar Nero chiamata Carpathia. Cresciuta da un padre amorevole e comicamente militante (Willem Dafoe), le viene insegnato a non uscire dopo il tramonto e a temere e cacciare la leggendaria specie nota come Ochi. Ma quando Yuri, introversa e incompresa, incontra un cucciolo di Ochi ferito e abbandonato dal suo branco, prova un inspiegabile senso di affinità. Ribellandosi alle regole del padre e del suo mondo, scappa di casa e si imbarca in una missione per riunire la creatura alla sua famiglia, affrontando per la prima volta il mondo in autonomia. Il padre di Yuri la segue con l’intenzione di fermarla e riportarla a casa, poiché ha sempre incolpato gli Ochi di aver portato via sua moglie. Nel frattempoYuri incontra una donna misteriosa ma familiare che le rivela alcuni segreti di famiglia e sul legame tra gli esseri umani e gli Ochi.Yuri dovrà così cercare di salvare il piccolo Ochi sfidando i legami famigliari e la storica avversione degli esseri umani nei confronti di una specie apparentemente ostile ma in fondo più gentile di quanto si possa pensare. L’unico modo per farlo è senza dubbio uscire dal proprio guscio, lasciando il nido e cercando la propria voce, quella che abbiamo dentro di noi fin da piccoli, e che spesso ci dimentichiamo quando l’età adulta si avvicina.

 

RECENSIONE

Venire a contatto con qualcosa di diverso è sempre difficile, è una sfida per la nostra cultura ed identità, sollecita la sensibilità ad uscire da un modello predefinito e riconoscere l’unicità dell’altro. Per Yuri, la giovanissima protagonista del film, non è facile sospendere il giudizio. Cresciuta tra le montagne, le è stato proibito di uscire dopo il tramonto per non imbattersi negli Ochi, figure leggendarie che popolano i boschi, controllata dall’occhio severo del padre Maxim. In quel ruolo Willem Dafoe si è trasformato in un fanatico delle armi che vive in una casa piena di cimeli ed indossa un’armatura da legionario, e alleva la figlia da solo dopo l’abbandono della moglie Dasha, interpretata da Emily Watson, stufa della sua incapacità di ascoltare gli altri. L’equilibrio si rompe quando Yuri in modo fortuito viene a contatto diretto con un cucciolo di Ochi, l’episodio scatenante per innescare il cambiamento, prima annullando le distanze, poi modificando il proprio punto di vista.

Per l’esordio alla regia Isaiah Saxon sceglie un racconto dalle sembianze fiabesche, e le alture dei Carpazi diventano lo scenario adatto ad un’immersione nel fantastico grazie alle ombre ed ai rumori da cui viene animato in un’atmosfera atemporale, dove poter ritrovare qualcosa di incontaminato da rivivere sullo schermo. In un processo di curiosità e meraviglia stende una palette pastello blue e gialla, mescola musica classica, metal ed ambient, questa davvero eccessiva, per provare a costruire un mondo che vada oltre il linguaggio, o meglio lo implementi con immagini movimento e suoni. È originale l’idea di far ricorso all’hoquetus, una tecnica medievale a singhiozzo basata sull’interruzione alternata della melodia tra due o più voci, intervallando suoni e silenzi per creare tensione ritmica e favorire un approccio musicale interattivo. Per le creature del bosco il regista ha scelto un approccio artigianale ed ottenuto degli ottimi risultati, un upgrade di film come E.T.,Gremlins ed i Goonies raggiunto utilizzando dei pupazzi plasmati con riferimento alle scimmie cinesi dal naso camuso dorate.

Helena Zengel, dopo la bambina aggressiva di Systemsprenger ed il lavoro in coppia con Tom Hanks di Paul Greengrass in Notizie dal mondo, stavolta veste i panni di un’adolescente inquieta, triste per la mancanza della madre, e trova una connessione con la parte. Una sintonia con il ruolo impossibile da trovare per Finn Wolfhard (StrangerThings,It,GhostbustersLegacy), che porta sulla scena il fratello adottivo Petro, personaggio marginale e con una funzione narrativa maldefinita, come per certi versi è poco centrata la figura di Dasha, confinata dopo il distacco dal tetto coniugale in una baita laboratorio, e considerata dal marito alla stregua di una strega. L’insieme di così tanti elementi è meno dirompente del previsto, il ritmo aulico ha tratti preponderanti, e la spasmodica ricerca della grazia e dell’armonia risente di qualcosa di artificioso, di posticcio, in netto contrasto di quanto il contesto bucolico dovrebbe suggerire. The Legend of Ochi è un film interessante visivamente, con una scrittura abbastanza trascurata, che cerca di afferrare qualcosa di invisibile, di impreciso, di magico, ma con risultati alterni.

 

APPROFONDIMENTI

 

La paura del diverso

The Legend of Ochi è un film che, pur essendo principalmente un’avventura epica e fantasy, affronta tematiche sociali molto profonde, tra cui l’intolleranza e il razzismo nei confronti di specie aliene. La storia si svolge in un mondo fantastico, ma riflette molte delle tensioni e delle ingiustizie presenti nella società reale, rendendo il film un mezzo più che utile per discutere di discriminazione e pregiudizio.Il piccolo protagonista del film insieme alla sua nuova amica Yuri, si trova a dover affrontare non solo nemici esterni, ma anche pregiudizi e stereotipi legati alla provenienza e alla sua razza di appartenenza.

Il percorso cheOchi compie nell’arco del film è un lento processo di superamento del sentimento di intolleranza con cui è cresciuta Yuri e tutti quelli che le sono accanto. Attraverso il suo viaggio, la protagonista impara ad approfondire e apprezzare le differenze culturali, a riconoscere l’importanza dell’inclusione e del rispetto reciproco tra razze diverse. La crescita personale di Yuri dimostra come il pregiudizio possa essere superato con empatia, comprensione e ascolto, valorizzando la diversità come un’enorme ricchezza e non come minaccia.

The Legend of Ochisi traveste da avventura fantasy per farsi portavoce di un messaggio di uguaglianza e solidarietà tra popoli, evidenziando un problema che affligge l’intera società e che può essere combattuto solo attraverso l’educazione dei più piccoli, poiché sono loro ad essere il futuro e gli unici che hanno il potere di cambiarlo. Il film incoraggia il pubblico a immaginare un mondo più giusto e inclusivo, un mondo senza muri ma con ponti capaci di unire culture diverse.

È molto interessante notare come molti film di fantascienza utilizzino la figura dell’alieno come metafora dello straniero o di chi è diverso da noi. In molti casi l’alieno che parla un’altra lingua rappresenta le paure e i pregiudizi che abbiamo nei confronti di chi non conosciamo o di chi ci appare diverso. Questa diffidenza può trasformarsi in ostilità, alimentata dall’ignoranza e dalla frustrazione delle persone che si sentono insicure o impotenti, e che quindi tendono a sfogare le proprie emozioni su chi è più debole e non può difendersi, come ad esempio gli stranieri. Tutto questo perché è proprio l’educazione il primo strumento di difesa dell’essere umano; una società educata, istruita e consapevole sarà sempre più forte e meno vulnerabile alle strumentalizzazioni di chi ha il potere di prendere decisioni.

Una delle prime opere che vengono in mente quando si parla di paura nei confronti dell’alieno è sicuramente E.T. l’extra-terrestre (Steven Spielberg, 1982), un film in cui è il governo degli Stati Uniti d’America a perseguitare il diverso, e solo un gruppo di bambini cerca di aiutarlo. Tra i due film la situazione di partenza è molto diversa ma il rapporto delle due istituzioni (governativa e patriarcale) con la razza aliena è molto simile, da un lato la paura e dall’altro il desiderio di cacciare per uccidere. Chiaramente nessuno dei due film ha la presunzione di proporre una soluzione a un dramma così insito nell’animo umano, ma entrambi possono ispirare una riflessione sui motivi di questa forte intolleranza che invade i popoli da secoli, alimentando la speranza che le nuove generazioni possano essere più consapevoli di quelle che le hanno precedute.

 

 

Lo stile visivo e le tecniche di animatronica

La cifra visiva di The Legend of Ochi nasce da un’idea semplice ma radicale: riportare al centro dello schermo creature fisiche, tangibili, illuminate con le stesse luci degli attori. Il regista Isaiah Saxon – coadiuvato dalla Legacy Effects e dai veterani della Jim Henson’s Creature Shop – ha scelto di evitare il fotorealismo digitale dominante per un’estetica più materica, sorretta da animatronics di ultimissima generazione e da pupazzi rivestiti di silicone espanso, lattice e pellicce sintetiche lavorate a mano. Questo film è l’esempio di come il cinema moderno stia riscoprendo e perfezionando l’arte degli animatronics e della puppetanimation, combinando tradizione artigianale e innovazione tecnologica per creare creature dal realismo tangibile e dall’impatto emotivo profondo.

La tecnica degli animatronics ha radici profonde nella storia del cinema fantastico. Film pionieristici come E.T. l’extra-terrestre (Steven Spielberg, 1982) hanno dimostrato come pupazzi meccanici sofisticati possano trasmettere emozioni autentiche meglio di molti effetti digitali. Carlo Rambaldi, il maestro italiano degli effetti speciali, ha stabilito standard ancora oggi mai raggiunti con le sue creature per Alien (Ridley Scott, 1979) e King Kong (John Guillermin, 1976). In The Legend of Ochi questa tradizione viene portata avanti attraverso un approccio ibrido che combina animatronics tradizionali con sistemi di controllo computerizzati all’avanguardia. Il film utilizza la cosiddetta filosofia 80/20: l’80% di ciò che vediamo è ripreso in camera, il restante 20% è ritocco digitale per cancellare operatori, cavi o altri elementi invasivi. La scelta non è solo nostalgica ma concettuale, dato che la presenza di un pupazzo incide direttamente sulla performance dell’attore in carne e ossa, così come testimoniano film come Labyrinth (1986) e Dark Crystal (1982) di Jim Henson, in cui l’interazione fisica tra attori e creature crea una chimica autentica impossibile da replicare in fase di post-produzione.

Le creature del film, in particolare il protagonista Ochi, sono realizzate attraverso scheletri meccanici in alluminio rivestiti da silicone medicale per ottenere una texture cutanea realistica, maschere magnetiche per passare da un’espressione all’altra in meno di dieci secondi e una folta pelliccia a rivestire il tutto. Il risultato è qualcosa che sfugge alla patina sintetica del CGI puro. Quando la protagonista Yuri accarezza il muso di un Ochi, si nota la compressione del pelo e la reazione impercettibile dell’animatronic; dettagli che non hanno bisogno di essere perfetti, ma reali. È la stessa imperfezione che rende ancora oggi credibili E.T. o Gizmo di Gremlins (Joe Dante, 1984).

Il labirinto del fauno (Guillermo del Toro, 2006)è un altro film di riferimento, dove creature materiali e CGI si fondono in modo assoluto; Del Toro è un grande estimatore di queste tecniche, avendo sempre sostenuto che gli animatronics conferiscono un “peso”inimitabile alle creature fantastiche dei suoi film. Il personaggio di Grogu (Baby Yoda) della serie ideata da Jon Favreau The Mandalorian (2019) assomiglia molto al piccolo Ochi, così come la sottile accuratezza delle espressioni facciali ricorda la tecnica già perfezionata per i Na’vi nella saga di Avatar (2009) diretta da James Cameron.

Riferimenti

Frankenstein di Mary Shelley (1818) – romanzo
Orientalismo di Edward Said (1978) – saggio
Saga di Brian K. Vaughan e Fiona Staples (2012) – Graphic novel
Behind the Scenes with The Puppets of THE LEGEND OF OCHI | Director Isaiah Saxon Interview
Björk – AllIs Full of Love–videoclip